Parcheggiata nell’universo separato
dell’officina umana dei ricambi
dall’esistenza strappo ogni divisa.
Nel mattatoio delle ambizioni
macino tutte le lettere del nome,
nella polpetta di frattaglie getto
la genealogia ed il lavoro,
sciolgo nella discarica il confine
le mura, la mia pelle, l’io.
Nuda
nella sorgente soffio vita
perché tu sia bolla d’acqua salina
e in essa galleggi la mia vita.
Nel desiderio agito misericordia
perché sia tu l’ artefice
di una possibile resurrezione.
Sotto questa pensilina ti attendo,
accanto a te io sarò nuova.
Giungi
prima che il cantico abbia fine
a me che non ho eterno nelle vene.
Giungi
in questa esistenza invernale
come brace costante,
nella primavera del prato
come pioggia sottile,
nell’estate di nubifragi
come approdo avvolgente.
Nell’autunno nebbioso
vestimi di tiepidi respiri.
Giungi a me sulla montagna
balzando di roccia in roccia,
latra nella notte al chiar di luna
in cerca del tuo disperso branco,
libra vento ostinato sul deserto
che ridisegni le ingobbite schiene,
conducimi dal mare ad una spiaggia
aggrappata alla tua argentea pinna.
Giungi a me nel bosco oscuro
come chiarore di un bivacco,
profuma l’immenso altopiano
con rose a perdita d’occhio,
colora il cielo infrangendoti
dentro un pulviscolo d’acqua.
Giungi a me
che possiedo questa vita
un’esistenza terrestre
un tempo solo
un solo luogo
e nessuna sacra scrittura
a regalarmi l’infinito.
Giungi dentro i miei occhi
e nella penombra fammi sognare.
Attendimi nella corsia delle partenze
mentre pesco nella barriera corallina
una morbida spugna dorata
e con essa dal tuo corpo lavo
ogni opaca stanchezza
e infermità e tristezza.
Quando la lunga notte s’avvia
già nel pomeriggio dopo cena,
foggia un calice con le mani
a raccogliere le carezze.
Bagna le labbra disidratate
con la saliva della lingua
che dalle mie labbra ti raggiunge.
Mi faccio cera d’api tiepida
perché ogni tuo impacciato tocco
lasci traccia nella mia plastica memoria,
perché la mia superficie sia la tua
ed insieme giungano a sciogliersi
scaldate nell’unico istante.
Mi faccio conchiglia
perché tu mi possa abitare ed esplorare
mentre mi trasporti sul fondale
tra coralli, madrepore e stelle.
Faccio della mia mano fuoco
della mia lingua freccia
dei miei occhi fibra ottica che ti indaghi
delle mie braccia tentacoli avvolgenti
e del mio fiato faccio ossigeno
perché tu mi possa respirare.
Avvolgi il mio corpo nelle onde
liberami dai miraggi dello sguardo,
con l’avanzare dell’alta marea
insinuati nelle grotte tra gli scogli
e porta in essi un nuovo riflesso smeraldo.
Giungi a me
prima che il carrello sferragli in corridoio.
Colma il mio bisogno d’essere raccolta,
contenuta, amata.
Sii vaso per il mio stelo,
formicaio per le mie briciole,
sii la mano che strofino sul mio viso
e su cui poggio cieca la mia nuca.
Che io possa raggiungere
la quiete della testa sorretta
mentre il corpo galleggia
a braccia aperte.
Sussurra alle mie orecchie
intelligibili parole
e il tuo fiato entri in me
come ringhio impotente
come armonia e alleanza
come sinfonia dell’universo
come ronzio della creazione.
Ti ritroverò e riconoscerò
per questa voce rabbiosa
Voce del mondo
raccolta dal vento e trascinata a me,
voce del mondo rubata
al di là dei miei confini.
Chiudo gli occhi, ti ascolto
e i miei silenzi trovano senso
nell’eco di un discorso annichilito.
Toccami, perché siano
le mie spalle al tuo abbraccio
il mio ventre ai tuoi baci
i miei occhi al tuo volto
le mie orecchie al tuo canto.
Esisterò della tua esistenza
ti sfiorerò, annuserò, assaggerò
ti avrò sotto la mia pelle.
Appoggio
al tuo torace la mia guancia,
mentre cammini in sogni lievi
ti esploro.
Bacio le tue radici
volo sul tronco
mi poso tra gli occhi e tra i capelli.
La mie ali siano per te dolce carezza
e la tua pelle carezzi la mie piume.
Struscio il mio volto
nell’aroma di fumo e di eucalipto
e mi abbevero del tuo sapore
con brevi colpi di lingua.
Stropiccio foglie d’alloro
e sulla schiena
risalendo dai fianchi alla tua nuca
col palmo ti strofino
perché la pelle si profumi
ed io possa leccarne l’aromatico amaro
Un dolce amaro
che sfamandomi mi affama.
Resta avvinghiato a me col tuo braccio
mentre ti annuso, ti accarezzo e bacio.
Soffia nelle mie orecchie il tuo silenzio acceso
e con le dita corri sul mio collo.
Mostrami la tua intimità,
così che io possa allentare lo sguardo su di me.
Baciami
tra le lenzuola bianche di un pontile
mentre la notte spegne i corridoi
e ti conduce al sonno.
Mi rannicchio
e tu baci la mia schiena,
mi raggomitolo
nel tuo desiderio di proteggere
di raggrumare un po’ di forza per me.
Indugio le carezze sul tuo ventre,
cercando un segno che non trovo.
Indugio sul grembo liscio di mai nato
mai nato a me
mai dato a me.
Mi appoggio
e nel pensiero ti raggiungo
di là dal comodino.
Al mattino,
mentre sfilano colte divise
si ridisegnano i confini
ed io persa
nell’impalpabile desiderio infermo
svanisco con te
nel primo prelievo.