di Mario Desiati
La poesia e la letteratura possono far male al corpo e all’anima,
ne sono convinto. Possono far ammalare. Un sabato
pomeriggio dell’ottobre 1996 Claudia Ruggeri mise in pratica
la profezia di una delle sue poesie più belle e tragiche:
“del traghettatore: e volli
il “folle volo” cieca sicura tuta
volli la fine delle streghe volli
il chiarore di chi ha gettato gli arnesi
di memoria di chi sfilò il suo manto
poggiò per sempre il libro (…).”
Tornò nella sua casa leccese, ripose i suoi abiti sulla sedia
nell’ordine che alludeva alla sua poesia e si lanciò nel vuoto,
facendo di sé un sentiero interrotto della poesia contemporanea.
Non fosse stato per la poesia, non l’avrei e non l’avremmo
mai conosciuta.
Il valore letterario dei suoi testi mi sembrò subito evidente,
sin dalla prima volta che li vidi.
Me ne innamorai, meravigliandomi grandemente dell’inesistenza
di una pubblicazione che la includesse, ad eccezione
della presenza sulla rivista L’Incantiere, dove fu dal numero
zero del 1987, quando Claudia si distinse all’interno
del Laboratorio di Poesia organizzato e tenuto da Colombo
(Da Salentopoesia ’95 , plaquette poetica, pag. 26-33)
e Vergallo: in realtà, al di fuori di una ristretta cerchia di
amici ed estimatori, rimase sconosciuta e fu dimenticata
per lunghi anni.
Quando ebbi per le mani il materiale disponibile, confluito
parzialmente nell’edizione di Inferno Minore (peQuod), un
brogliaccio fatto di scarabocchi, appunti, manoscritti, dattiloscritti
e persino forme pionieristiche di videoscrittura
(il tutto depositato presso il gabinetto Viessieux di Firenze),
mi fu subito chiaro che la Ruggeri rappresentava davvero
un caso unico e irripetibile di questi anni. Leggendola mi
sono sentito perso in un mondo di figure inquietanti, oniriche,
come se quella poetica fosse stata maturata in uno
stato di dormiveglia, in un grandioso passaggio dal sonno
alla vita.
Pochissimi nella sua generazione hanno osato tanto, sapendo
inventare una lingua letteraria sui generis, fatta di arrovellamenti
lessicali, parole trobadoriche, riferimenti colti e
popolari, simbolismo esasperato, grande tradizione italiana,
orfismo. Una lingua tesa e coesa con lo sfilare, che definirei
teatrale (forse davvero “l’unica risposta possibile alla
crisi del soggetto e della società”), dei personaggi all’interno
della sua poesia, una visione poetica dialogante e colta
dove i suoi interlocutori testuali possono essere spettatori
più che lettori: Claudia Ruggeri ha inventato una sorta di
nuovo barocco, ma senza decadenza.
( A proposito di un possibile raffronto con Dino Campana, c’è da dire
che in favore giocano la visione tragica ed allucinata, l’aurea funebre,
il tentativo di emersione, la prevalenza della struttura fonematica.
Molto meno elementi come la religiosità misterica, apollinea,
ermetica, tipici dell’orfismo ed in lei assenti quasi del tutto.
20 Donato Valli, Claudia Ruggeri o dell’impunità della parola, Aria di
Casa vol. 1 Congedo editore 1999, pag. 391 e 392)
….
L’esordio pubblico di Claudia Ruggeri, cappello rosso e vestito
nero, avvenne durante una lettura alla festa dell’Unità
di Lecce del 1985. Dario Bellezza ne fu sbalordito spettatore,
da allora uno degli scrittori a lei più intimi e, mi parrebbe,
uno dei principali modelli fra i contemporanei, insieme
a Zanzotto ed alla Valduga.
E qui occorre accennare a SalentoPoesia, un’occasione inedita
per la Puglia che permise l’incontro di tante individualità
letterarie: si trattò dei primi reading in quella regione,
dove i migliori autori italiani si cimentarono nella lettura
per intere serate. Le edizioni del 1989 e nel 1995 videro la
partecipazione di Claudia.
Nel frattempo (siamo nel 1990) scelse però di inviare la
prima delle raccolte, la più completa, a Franco Fortini. Non
possiamo omettere le impressioni che l’anziano poeta fiorentino
ricavò dalla sua conoscenza.
Pur stimandone grandemente il talento, rimproverò l’uso
indisciplinato che a suo dire ne faceva, unendo alcune
critiche severe ai giudizi lusinghieri. Eppure nella Ruggeri
erano serbati ed espressi sentimenti amari e sinceramente
sofferti riguardo all’Italia ed alla società di quegli anni,
insieme ad uno sguardo lucido e disincantato, che non dovevano
esser poi così alieni dalla sensibilità di Fortini, il
quale fu però sopraffatto dal barocco veemente di una poesia
“ingioiellata”, come la definì, tanto diversa dalla sua. Le
suggerì così di “fare piazza pulita” dei suoi modelli. Troppo
presenti, quasi ingombranti. Ma i modelli erano tanti, non
troppi: entravano nelle poesie, in maniera devastante, con
forza lavica.
Le parole, le figure retoriche, infine gli stessi capoversi erano
il simbolo di una concentrazione semantica e sintattica
che non trova precedenti.
Le prime poesie della Ruggeri hanno un’impronta più lirica
e maggiormente trovano riferimenti nella tradizione ermetica
italiana, nonostante si infiltrino già elementi postmoderni,
come i tanti neologismi (“ubìa” in Sabato), frasi fatte
(“vorrei ma non posso” in Venerdì), citazioni, testi di canzoni
(“Berta filava” in Presente/assente VIII), marche (“Nestlè” in
movimento in quattro tempi) e le prime spaziature irregolari,
che ritroveremo moltiplicate nelle ultime produzioni, in
particolare nelle Pagine del travaso.
Nelle poesie giovanili si dà uno spazio all’elemento geografico
ed al rapporto con Lecce, un sofferto dissidio con
la propria terra, la propria gente. Ciò è testimoniato dallo
scherzoso rimpianto per l’unità d’Italia, così deleteria al
Sud, distante, presente in una bellissima lettera inviata ad
un amico milanese:
“… questa disgraziata, mia amata, riunita Italia s’allunga
e adagio poco sfiata, e s’allunga sempre più e comincia proprio
da Lecce questa catastrofe delle distanze (e di Craxi e De
Mita…”.
Spazio che successivamente non verrà più concesso, la concentrazione
della poetessa spostandosi decisamente verso
elementi stilistici, come distintamente avvertiamo quando
questa prima fase cede il passo alla seconda, più tipica e
matura. I testi si fanno medioevali, intricati di stili e temi.
Una koinè fantastica che rappresenta uno dei tratti più
riconoscibili all’interno di quella meridionale linea borbonica
definita da Flavio Santi (Trame, 6/7 – 2003) in dia
lettica contrapposizione alla settentrionale linea lombarda.
Si avverte un sentire comune tra certi poeti, che partono
da Girolamo Comi e arrivano a Claudia Ruggeri, passando
per Vittorio Bodini, Ercole Ugo d’Andrea, Oreste Macrì,
Vittorio Pagano, Antonio Verri, Michelangelo Zizzi, Stefano
Coppola, Sergio Rotino e con loro i più giovani che si
raccolgono nelle riviste sorte in questi anni. Un sentire comune
dove l’elemento principale è la densità, ma poi c’è la
passione, il mito, l’espressionismo violento. In proposito, lo
stesso Zizzi che mi fece scoprire la Ruggeri (essendone stato
amico) scriveva su “Nuovi argomenti”, 28 : “Aveva una
carica espressiva enorme, quasi un dono della divinazione e
del magismo che si trasferiva nel mito […] ed ecco chiavi di
volta nelle sue liriche figure come il Mago, il Matto […]”,
riprese dal lessico della taroccologia.
….
Il cammino che conduce ad Inferno minore passa per la passione
filologica e medievalista, poggiata su basi ben solide,
come risulta evidente nel Lamento della sposa Barocca, con
versi che conosceranno varie riprese nei testi successivi:
“[…] T’avrei lavato i piedi
oppure mi sarei fatta altissima
come i soffitti scavalcati di cieli
come voce in voce si sconquassa
tornando folle ed organando a schiere
come si leva assalto e candore demente
alla colonna che porta la corolla e la maledizione
di Gabriel ” 21
(21 C. Ruggeri, Inferno minore, pag. 109, peQuod, Ancona 2006.)
Ancora, ne il Matto III 22 c’è l’epigrafe tratta da un brano
delle Cronache di Villani, poi ci sono parole come òccaso al
ventisettesimo verso, dulcedine al ventesimo verso, il tosco
al trentesimo ed ultimo verso.
Un discorso a se stante meriterebbe la presenza dantesca. La
stessa idea di porgere omaggio al Sommo sin dal titolo, un
Inferno minore memore del maggiore, una riduzione in sedicesimi
che cuba all’interno il proprio disagio, attesta come
Claudia Ruggeri abbia focalizzato la propria attenzione sul
volgersi indietro, al fine di inventare un nuovo linguaggio,
sperimentale e classico allo stesso tempo, rammentando e
ravvivando anche la straordinaria esperienza letteraria della
letteratura di corte, provenzale ed anche federiciana, di
poco precedente la Commedia.
Dante resta però modello inarrivabile di erudizione e di arte,
non solo quello dell’opera maggiore, ma anche, ad esempio,
quello della Vita Nova: la Beatrice di Inferno minore 23 non
è infatti la figura divinizzata del Paradiso, ma è ancora la
donna angelicata della Vita Nova, quella che fa battere il
cuore e la passione al sommo poeta. Il cuore e la passione
che battono anche in ogni verso della Ruggeri.
Da tale fertile ambito in seguito si allontanò, per dedicarsi
ad un’opera più ambiziosa, le Pagine del travaso, in cui il
barocchismo si esaspera e tracima in un horror vacui che
ricorda Umberto Bellintani 24* o il primo Antonio Porta,
22 Ivi, pag. 89
23 Ivi, pag. 85
…..
24 * N.d.C. Umberto Bellintani (San Benedetto Po 1914 – Mantova
2000), scultore e poeta. Diplomato in scultura nel 1937, fu richiamato
alle armi nel 1940, finendo prigioniero in Germania. Al suo
ritorno abbandonò lo scalpello e divenne segretario scolastico.
tra i grandi forse uno dei più vicini a Claudia.
Claudia Ruggeri è uno di quei percorsi del malessere, uno
di quei talenti che non ha avuto il tempo e l’esperienza
per cristallizzarsi. Ma rimane un esempio unico di poesia
ed i poeti non restano sepolti a lungo: il tempo darà ragione
della grandezza di Bodini e non farà più dimenticare
Claudia, poetessa della meraviglia, Arcimboldo della poesia
contemporanea.
Formatosi negli anni Cinquanta e Sessanta come una delle voci più
libere e potenti della nuova poesia d’allora, dopo E tu che m’ascolti,
1963, decise di uscire dalla scena e di non pubblicare altro. Il lunghissimo
silenzio fu interrotto solo nel 1998, con la raccolta Nella
grande pianura, comprendente le tre precedenti, insieme ad inediti,
pubblicata da Mondadori.