A conti fatti sono una ratatouille di carne ed umori
impastati con i peggiori turbamenti
sono un capitombolo d’ossa
e a momenti un castello volante
un argine al fluire del mio stesso sangue
nel sacro ripugnante contrarsi di fibre e di nervi
l’assenza di radici a cui fa eco il pelo
ma anche l’irruente prepotenza della specie
incontenibile
traboccante dal suo rigido
replicabile calco che mi torchia le spalle
(su di esse pesa una disarmata timidezza)
m’ha costretto su binari stranieri
a mete mai godute appieno
possente al punto da darmi in pasto alle stagioni
e al loro mutevole ozio
matrice dominante qualsivoglia impulso celeste
ma essa stessa viatico per il suo scopo arcano
sono l’unica certezza di un sogno vano
e il vuoto intervallo che dissocia il vero dall’attenzione
l’acuto osservatore e l’immagine allo specchio
MA BASTEREBBE FORSE DIRE CHE SON VECCHIO…
sono un borborigmo di dolore e strazio
di perdite spasmi e compulsione
nel supplizio dell’attesa
senza l’incognita di un tempo padre e padrone
col fuoco malcelato dello sguardo inchiodato al timore
sono il malore della speranza che si rimette in corsa
appena gira il vento
sono un gentiluomo di razza aliena
incline alla gratuità del dono
e al subitaneo ripensamento
per non dir lo stagno o il fiume in piena
sono un frastuono
di schizzi colorati e nel contempo
un ordine sparso di congegni
rottamati confusi e separati da una pazza mano
l’inaspettato convitato di pietra
al banchetto della nuova era
il detto e il contraddetto copernicano
colui che c’era ma non c’era
l’antico guardiano sul bordo degli oceani
e l’intuizione ricurva dei mondi affini
sono l’elica significante del brusio sulla terra
e pur l’incognito dado che ne modifica il nucleo del destino
SONO UN ESSERE … STAVO PER DIR … DIVINO :
FORZANDO LA PENNA CON LA MIA STESSA MANO
A DIR SI PUO’ DI TUTTO
MA QUEL CHE CONTA POI E’ SEMPRE IL FRUTTO …
Son la campana privata del battocchio
MA BASTEREBBE FORSE DIR CHE SONO VECCHIO …
son fango e fondamenta
l’intreccio compatto su cui si edifica l’ impero
prima che l’agonia sia lenta
sono un abbaglio a luce spenta
crogiuolo della vita e del mistero
l’incrocio del libeccio col grecale
sono il tanto il troppo l’arguto e l’ottuso
la sintesi tecnologica dell’universo
senza un manuale d’uso
sono il portatore sano di un infinitesimo d’infinito
ammorbato dall’eterno istante e dal giudizio
arsenale di bruma filtrante frequenze
senza sosta a sé stesse uguali
sono il blocco all’apice estremo di una più ampia ampiezza
ampiamente definita dal rigore
capestro teso su confini e identità
e pure sono l’al di là del male elargito dal perdono
ciò che non si vede e sente sono
l’opportuno potente potere della legge che quadra il cerchio
MA BASTEREBBE FORSE DIRE CHE SON VECCHIO …
il mastice rimargina ferite e che risana il tutto in uno
e l’assoluto paradosso della fragilità umana
son forse un po’ di terra e sassi e cenere ridotta all’essenziale
sono il minimo ingombro e il massimo tormento
per quanto a tirar le somme … non torna il conto
di certo è un’operazione invana malsana
è un orizzonte di logica gaussiana che s’allontana
questo bisogno urgente questo rallentamento lento
al declinar della china
è guerra fra le grinze della pelle
non è rivelazione ma rovina
questo giocare a carte con la sorte
sperando che la scala sia reale
non vale né la pena né lo scopo
se tal quale fosse alla dottrina
raddrizzare il prima e riunirlo al dopo
è un mero equilibrismo sul filo di partenza e dell’arrivo
è lo svuotare il secchio che è già vuoto
MA BASTEREBBE FORSE DIRE CHE SON VECCHIO …
anche se ancora vivo in spirito lucente
sono il motore e il moto
perpetuo o apparente
verso l’ardito guado … dell’ignoto
g.v. 4/2013