Elvira Bianchi è una poetessa. Scrivere in modo piano, apparentemente semplice, è la sua cifra stilistica. Senza vacue prosopopee e inutili rigonfiamenti di parole. Si può essere il Mondo, nel nostro piccolo, riportandone atomi elementari di vissuto. Questo è ciò che accade quando il miracolo si compie. Il miracolo dell’arte. Che niente si crea e niente si distrugge. Ma tutto viene trasformato.
Il segreto è semplice. È guardare con occhi nuovi. È trovarsi dentro. È riuscire a farsi sintesi plausibile nei minimalismi delle proprie certificate insicurezze. È avere la dolcezza tutta femminile di posporsi. È vantarsi dignitosamente delle proprie sconfitte.
C’è vita vissuta in queste poesie. Quanto basta a grammi cento. Vita quotidiana distillata che secerne lacrime di splendore da un sentire certo doloroso, ma non privo di speranza.
dalla prefazione di Paolo Sciola
La lettura di Giorgio Linguaglossa
Mi chiedo molto spesso, quando leggo poeti della contemporaneità, che cosa significhi per loro: «la domanda del Novecento?»; esiste una domanda «del Novecento»? E se la risposta è sì, qual è per un poeta contemporaneo? – Ecco, io credo che dalla consapevolezza e dalla drasticità con cui un poeta odierno si pone questa domanda radicale non può non scaturire una presa di posizione dinanzi alla questione di quale linguaggio poetico, a quella di quale punto di vista adottare, di quale oggetto costruire e così via. La soluzione di una domanda porta con sé necessariamente la soluzione di una serie di altre domande. È una sorta di effetto a catena. Ho la sensazione che la poetessa torinese non abbia ancora deciso di affrontare i nodi nevralgici e strategici del Novecento, che giacciono lì non risolti, e ciò comporta un certo costo stilistico. Elvira Bianchi con questo libro adotta una poesia della rifrazione dello specchio, utilizza una metafora specchiante e riflessa, una procedura ironica che oscilla tra la centralità dell’«io» e spunti di esotismo («…scuoto i capelli ricci inanellati / che da ragazza ho tinto di acajou / nuova mi faccio anch’io cambiando nome / e regina mi proclamo con scettro di bambù / dondolando pendenti di ciliegie…»), esiti paganeggianti e interni piccolo-borghesi, il tutto infuso in uno sguardo lievemente ironico. Del resto, se si adotta, come fa Elvira Bianchi, la centralità monologante dell’«io», ne deriva che l’oggetto della poesia è tutto ciò che circonda e perimetra quella centralità. Ma, mi chiedo, così facendo la poetessa torinese non rischia di adottare (inconsapevolmente) una diramazione della lirica piccolo borghese della poesia italiana del Novecento? Una diramazione pur corretta da una sapiente ed abile dosatura del principio ironico? – È questo un pericolo oggettivo. Comunque, il libro di Elvira Bianchi è di piacevole lettura e, indubbiamente, evidenzia capacità stilistiche di tutto rispetto, ma ho come l’impressione che si tratti di un libro-ponte, un libro interlocutorio che si prepara a lambire un altro (prossimo, di là da venire) territorio stilistico.
Giorgio Linguaglossa
Ho letto Carver
sdraiata al sole
con pagliuzze d’oro
che mi danzavano negli occhi
lui era triste
un superstite a leccarsi le ferite
di fronte alla finestra
spalancata
su una distesa d’acqua
fra due fiumi
stasera misurerò le mattonelle
a passi
con una carezza in più
al mio vecchio gatto
mia figlia in amore
e già partita
con valige sempre più distratte
vorrei ballare
e non pensare al tempo
ladro di meraviglie e di sorrisi
il mare mi fa cenno
e me lo tengo amico
sto imparando a nuotare
e faccio spruzzi come una bambina
la testa sotto ad occhi aperti
sull’azzurro
basta resistere quel secondo in più
in apnea
non si muore e non per questo
non ancora.
*
Io madre dei gatti,
dei comignoli di pietra
e a volte della luna
mi specchio nelle lame dei coltelli
e getto sale dietro le mie spalle
ma come Ofelia impazzita
di notte dimentico chi sono
e nei tuoi occhi annego di acquitrino
poi mi basta un anticipo di sole
o pagliuzze di fieno rinsecchite
trasportate da intrepidi cortei
in cerimonie di formiche
per sentire di nuovo sotto i piedi
la terra dura in crosta a sostenermi
come corazza di vecchia tartaruga
dal ventre morbido di seta
allora rido e abbandonando l’ombra
accarezzo la lanugine dei prati
scuoto i capelli ricci inanellati
che da ragazza ho tinto di acajou
nuova mi faccio anch’io cambiando nome
e regina mi proclamo con scettro di bambù
dondolando pendenti di ciliegie
finito è il tempo scarno degli addii
sia fatta luce tersa
Ofelia non c’è più.
Elvira Bianchi è nata a Torino nel 1952. Vive e lavora a Terracina. Suoi testi in poesia e racconti, pubblicati in diverse antologie e riviste letterarie, hanno ricevuto riconoscimenti a premi e concorsi.
Pubblicazioni:
La casa era diventata improvvisamente grande – racconto pubblicato nel libro “È da tanto che volevo dirti” (Einaudi Stile Libero);
Il vento che scombinava gli odori – fiabe (Liberodiscrivere).
Opere di Giuseppe Modica
In copertina: La stanza del marinaio, 1990, olio su tavola.
All’interno: Lungomare, 1992, olio su tavola.