Poesia nella natura (non sulla natura), dove il radicamento sembra essere l’essenza e l’esigenza stessa del verso, dove la natura è quel che dice la parola natura, cioè essenza. Poesia radicata nell’esperienza sensibile.
L’ambientazione non è quindi, per intenderci, quella del documentario faunistico o la scena di un quadretto agreste, bensì l’ambiente più vasto, che è l’universo stesso, a tratti delicato e sontuoso, a tratti crudo e doloroso.
In questo luogo poetico le condizioni e le situazioni apparentemente distanti possono risuonare tra loro e richiamarsi perché condividono un’origine comune e inconosciuta, e allo stesso tempo appaiono inevitabili e predestinate. Così la similitudine, che non rimane in queste poesie un espediente per dare un colore poetico o una qualche suggestione, si rende metro dell’esperienza, si apre al mondo del simbolo e lì permane. Il rogo nei campi in cui muore il riccio, in un intreccio di cause in cui piante, animali e uomini sono legati e intrappolati insieme, si apre a simbolo di altri roghi, e di altri disastri (umani e non) dei quali nessuno sembra aver più titolo d’importanza rispetto agli altri.
La veste lirica, come da migliore tradizione, non rimane un’esteriorizzazione delle cose intime, al contrario è strumento di apertura, a un tutto di cui l’io lirico è semplicemente, o forse incidentalmente, un punto focale tra i diversi possibili. Il mondo esterno si estende fino nel mondo intimo e così alla fine anche il male non è in fondo stigmatizzabile: è un incidente doloroso nella inesorabilità naturale della vita, quindi è insondabile e inconsolabile. L’io poetico qui, infatti, fa delle domande ma non sembra aspettarsi tanto risposte, quanto una partecipazione solidale e consolatoria; il metro è cadenzato come il passo di chi è per la via, e sta coi piedi per terra; i periodi sono lunghi e articolati, a riunire e come ricucire insieme archi di vissuto più ampi possibile, a imbastire un’immagine, se non comprensibile, almeno riconoscibile.