Un’ oscura massa di vento bollente
avvinghia vetri privati
come vetrine primitive
su questo molleggiarsi d’ intimità.
E dentro
lo schianto abbacinato:
un piede,
sul pavimento che non vuole offrirglisi,
striscia graffiando via ogni delicatezza.
Non se ne parla di uscire.
Il catrame, fuori,
è la scomposta ironia del mondo
e brucia in una interrotta pioggia di cenere.
Dà un senso di trattenuta protezione
rimanere a sgranocchiare noccioline
sull’ opaca vela del divano.
-Mia madre lo diceva sempre-
è questo che ti serve:
una pupilla che ti chiami bambina.
Sgusciando via
l’ arsura della notte mi ruba l’ ultimo ricordo
e il volto si estingue al pallore della morte
-è sparita la mia mamma-
Non c’ è più niente che mi trattenga
dall’ offesa della pioggia di catrame.
Ecco che dell’ esterno
mi inghiotte la frusta.
Forse non è questo il suicidio
… ma un po’ di vita
quella dimenticata
tra l’ acidità del rimpianto.