poi sei arrivato
in questa trincea infinita
che ho lasciato incompiuta
e già sommersa dal tempo mancato
a vegliare l’attimo che sporge
come un grido di gabbiano
a poche miglia dalla costa
inaspettamente
a combaciare con la mia ferita
l’appartenenza della tua faccia mai vista
segno di pioggia o di neve fresca
tra le continue sparizioni
della via
a spargere stami
sulle vocali umide di vecchi prati
senza nulla chiedermi dei tetti in rovina
delle meteore d’argilla sul fondo degli occhi
a percorrermi il rovescio del mantello
con le mani bendate
d’acquadimare
intanto che tremo dalle alture del petto
riconoscendo a memoria il suono
dei bianchi fiori del ciliegio
cadere nei giardini straziati di tombe
e in segreto
guardo il cielo rinascere da qui
nell’innocenza
esplodendo in silenzio la colpa del suo azzurro
prima che si riappropri dell’oscurità migliore
lungo tutta la curva della nostra voce.