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articolo di Mary B. Tolusso
Federica Gullotta ha venticinque anni. È persona di letture classiche, è evidente dal suo canto, versi dal climax agreste, in originale equilibrio tra la soavità bucolica e la spietatezza leopardiana. Se un merito va a questa giovane autrice, è la capacità del rischio, prevedendo i colpi bassi dell’enfasi, ma anche le risalite grazie a un pensiero piuttosto lucido. La Natura, infatti, sa fare dono di sé, per quei pochi che riescono a percepirla, e nel suo furore rimane sempre la star. Gullotta sa gestirla con un linguaggio controllato, anche nei suoi vertici retorici, talvolta sporcato fino a un’ordinarietà disturbante, più spesso capace di mescolare respiro lirico e pensiero filosofico, in due parole: un linguaggio inventato. La Natura è la diva, questo è certo, ma una diva antropomorfizzata: La pianta ha i suoi muscoli, / la sua carne, ed anche le sue ossa / e i nervi. Perché in fondo sta qui la metafora, una Natura che tenta di rappresentare un ideale umano: libero, per intenderci. Una Natura libera come dovrebbe essere libero l’uomo. La sottotraccia della silloge, il fil rouge, è una sorta di anarchia che se si evidenzia in modo manifesto esclusivamente negli effetti di alberi, terra e animali, non rinuncia a porsi come modello. Non a caso un altro elemento di poetica è la possibilità di recidere i legami affettivi. Tema utopico, inevitabilmente legato a certi afflati di gioventù, impossibile da praticare, nonostante la chimera della libertà. Ma d’altra parte è compito della poesia puntare eccessivamente in alto, perché i frutti raccolti siano almeno al cinquanta per cento. E della poesia è compito destabilizzare, smottare e inquietare a iniziare dal soggetto scrivente: “La scrittura come malattia cronica”, recita un titolo della silloge. Libertà significa anche consapevolezza di schiavitù, cognizione tanto più colpevole se viene ignorata: Il liquido amniotico del / sapere, fa nascere / servi ubriachi. Un eccesso di coscienza può condurre alla rovina, nulla si può senza il compromesso, la moderazione vince in ogni campo, fuorché in quello dell’arte. Gullotta non è una dissidente infervorata, non ha alcun tormento politico o sofferente afflato civile, benché sia difficile non legare un’idea di “impegno” a ogni verso che chiunque scriva. Ma come nella migliore tradizione: l’obbligo di un’artista sta nel rintracciare, ideare ed evocare la bellezza. E la vitalità. Il desiderio di vita. La sua è una lingua tesa a questo scopo, al punto di rianimare oggetti inorganici, capovolgere prospettive, dominare la lingua in uno straniamento personalissimo, lì dove se Tutti conosciamo le palafitte urbane / aggiustate sui supermercati, ben pochi sanno le tenere anarchie / dei mattoni, e le umidità paterne /da stendere coi palmi. Una vitalità che nella memoria di qualche onirica perfezione ha fatto in modo che la vita si concentrasse / ed esplodesse in un solo punto. C’è una decisa sensibilità al linguaggio, soprattutto nelle possibilità sinestetiche e ossimoriche.
Federica Gullotta rientra sicuramente nel novero di una poesia visionaria, ma di una visionarietà calibrata nella creatività del contrasto: orfica, ma lucida. Lirica, ma contemporanea. Da Archiloco a Rimbaud, da Rimbaud a De Angelis, autori che per un momento potremmo immaginare dentro il suo impianto poetico, ma implosi in una lingua infedele alle fotocopie epigonali, ancora in cerca di un’inimmaginabile alternativa, priva di una definibile cittadinanza.
Mary Barbara Tolusso
*
Le prime terre dal basso
I.
Oh, è terribile è terribile
questa luce
che penetra nel cuore
abominio della sete d’oggi.
Non lasciare non lasciare
che la calma si unisca
ai campi di mais.
Ogni tramonto è cannibale e parricida.
Rallenta la biglia del buio.
Piccolo fauno.
La notte non vale
tempo, la campagna
ti possiede nuovamente.
Le volte a spirale rivendicano
la loro puntata.
Lascia il tuo piede a loro,
e lascia gli occhi
all’erba medica che fa
fiori così belli.
Selvaggia natura verde
ristorati nella villeggiatura
dei corvi sui canali:
non esiste chi ti meriti
di più.
Aspetta la vespa, rassicurati
nel ronzìo della vespa:
avere il male,
e non doverlo
temere.
Piangere le stelle,
invitarle a sé.
*
Tutte le madri iniziano presto
Tutte le madri iniziano presto
a spaventare i loro bambini, mostrando
bellezze dal precipizio e distraendo
le viole, e hanno strani modi per favorire
scomposte visioni di colore.
E tutti i bambini, presto,
iniziano ad annodarsi il collo,
a indossare scarpe slegate,
a contare le aurore imminenti.
*
La bestia viziata
Come animale sento –
e come sento odoro –
e odoro quello che penso –
come animale un tempo, mi adoravano
tutte le mani e tutti i respiri
di freccia in furia
tra gli alberi sonori
Come animale spacco –
e come spacco celo –
e celo quello che penso –
un tempo, orgogliosa come un
palo fulminato, e risoluta,
scortecciata, piena di umori
riavvicinai la terra scoperta
e lunga