Le sezioni che compongono questo mio libro “Sbarcare da se stessi” hanno avuto una gestazione diversa, negli anni e nella sostanza, fino a confluire nello stesso contenitore. Le accomuna una memoria superante le pose della bellezza dei fiori e della carne, che pure si risolvono nel senso e nel valore di fare poesia, per impegnarsi in una fase di ripensamento delle presenze e dei ricordi che muovono verso nuovi risultati. Queste possibilità di richiamare le guide dell’intelletto sottostanti alle vicende della sensibilità poetica mi sono giunte anche da pagine di narrativa, dall’ascolto di musica e da frequentazioni pittoriche, in cui tutte le complicazioni del mondo reale hanno restituito integri l’ardore e la bellezza della vita.
Certi luoghi, poi, che mutano meno rapidamente degli uomini, come scrive Proust, hanno conservato pure nel mio fare poetico l’economia degli affetti e le trame interne delle vicende generando una mediazione di necessaria confidenza. E insieme a quei luoghi, sempre vivi e interagenti con la consapevolezza della mia esistenza, le schegge e i frammenti della prima età o dell’ultimo amore e questa età più vicina, terrestre e terrena che duole del groviglio dell’impasto umano nelle pagine scritte. In esse trovano asilo le pause se non i trasalimenti dinnanzi a verità che riflettono la coscienza come l’immagine allo specchio, gli stralci di esperienze vissute accantonate da un senso di rinuncia, gli schizzi su una tela appena abbozzati come un quadro in attesa di una stesura originale.
Fare poesia, pertanto, da riscrivere nel moltiplicarsi delle variazioni, una poesia che vorrebbe trovare ma non trova la parola conclusiva a motivo dello spaesamento delle circostanze e degli affetti senza tener conto che la stessa non è mai definitiva se essa vive negli alfabeti sotterranei, nei guizzi sommersi, nei traccianti nel buio, nell’anelito appena avvertito dei cieli assoluti. Nella sua essenza viaggia una corrente alternata che nel presente ci richiama il passato e ci scuote perché la cerchiamo all’esterno mentre la sua risonanza è dentro di noi.
Da quando ho cominciato il mio vagabondare nella scrittura poetica l’unica certezza è rimasta questa fedeltà nel mettermi alla prova, nel rimescolare le scintille o le sillabe giunte da chissà dove, da quali esplorazioni di parole che nella loro naturalezza, nel loro essere più acconce al senso da esprimere, hanno da essere ogni volta nuove di conio e antiche di purezza. Nemmeno io, quando mi leggo, so scrivere vere poesie; anche inventandomi tornitore la mia parola a tratti riflette la luce altre volte rimane ruvida e sempre da capo la devo inventare, senza altro sostegno che la mia solitudine. Così sento la voglia di confrontarmi con la gente e mi rituffo “in un gomitolo di strade” o nei sentieri dei miei boschi di conifere come per entrare in una cattedrale o reinvento la volontà di comunione coi miei amati scrittori, coi loro discorsi di continuo tentati e ripresi, discorsi che permangono nel tempo e indagano le maglie poetiche perché sia più nitida l’immagine (che non si riesce quasi mai a raggiungere in pieno) nel tentativo di definire niente meno che il disegno stesso dell’anima.
E. N.
Notizia
Eugenio Nastasi (Rossano, 1948) pittore e poeta, vanta una carriera più che trentennale in ambito culturale.
In poesia - prima della presente silloge – ha pubblicato La scelta del silenzio, Lo specchio greco, L’età tra tegole brune, Il seme del millennio, Buonanotte allibraio, Linea di confine, Un sogno guidato, L’occhio degli alberi; nel 2010, con la Recherche.it, Canti senza percorsi, in formato eBook scaricabile su www.ebook-larecherche.it. Ha conseguito numerosi premi per la poesia edita e inedita.
Ha collaborato alla rivista Polimnia, diretta da Dante Maffìa e a molte altre del settore. Collabora con la rivista online laRecherche.it diretta da Giuliano Brenna e Roberto Maggiani.