La poesia, per me, è della stessa sostanza del pianto e della preghiera: è la voce dell’individuo che scopre e si misura con i limiti invalicabili, con tutte le impossibilità della condizione umana. È l’espressione inconfutabile e originaria della creatura che si esperisce, senza vie di fuga, senza più nulla che lo veli, nella sua tremenda verità: fragile, sola, soccombente.
In questi momenti estremi in cui l’umano si realizza nella propria vera essenza di finitezza, nel silenzio che schiaccia, non c’è più spazio per il superfluo, per il quotidiano: tutto si contrae nell’essenziale. La poesia, come il pianto e la preghiera, non si rivolge a interlocutori umani né si propone scopi da raggiungere, ma è un radunare e far salire alla superficie il lamento incontenibile, immediato, infondato e radicale dell’essere umano di fronte al dolore e alla morte.
Viviamo oggi un’epoca nebbiosa di mutazione: la nozione di limite va lentamente sbiadendo; la coscienza della nostra condizione sta inesorabilmente cambiando. La ragione stessa del domandare si sta esaurendo; si pèrdono la capacità, ma anche la stessa necessità di porre domande: sollevati dall’urgenza del domandare, di porre quelle domande, non soffriremo più dell’orrore per il silenzio mortale con cui il mistero ci ha sempre risposto e che ha costituito sinora l’umano nel suo essere. Tutto ciò sta diventando passato, perso per sempre; di più: invisibile alla vita di domani.
Il compito della poesia è sempre stato quello di accompagnare l’umanità nel suo dimorare sulla terra e nel tempo mantenendo acceso e vivo tutto il dicibile del linguaggio, la casa dell’essere. Oggi essa, per continuare ad adempiere a questa funzione cui, per definizione, non può sottrarsi, deve dunque parlare dell’oscuro presente che stiamo vivendo: l’indecifrabile momento dell’addio in cui, da esseri angosciati e mortali, diventiamo lentamente creature altre, incapaci di concepire l’inconcepibile, di piangere e di pregare.
Le nostre parole
Non sono dunque bastate tutte le parole che ci siamo tese attorno, che abbiamo lanciato speranzosi d’appigli.
Non tiene la tela destinata sterile di sostegni.
Non saranno servite quindi per attraversare il mare, nemmeno per sperare la vista dell’irraggiungibile costa delle vecchie leggende.
Ma servono, devono, per restare a galla, respirare svegli almeno questo preciso momento aver conosciuto l’aver vissuto.
(Cittadella, 6 luglio 2016)
Notizia
Romano Morelli è nato a Liegi il 13 giugno 1953.
ha pubblicato in poesia È non è (Rebellato, 1988) e Questo essere. Poesie 1988-2010 (Mimesis, 2013). Sempre per Mimesis, ha pubblicato nel 2014 il saggio Hölderlin e il sacro, nel volume collettivo Teologia della follia.
Un difficile partire o Dell’essere nella metamorfosi è finalista per le raccolte inedite al premio Lorenzo Montano 2018.